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CORRIERE.IT: Dossier denatalità, perché ottomila nati in meno?

Che l’Italia non faccia più figli è aldilà di ogni ragionevole dubbio. Siamo l’ultimi in Europa per nascite ogni mille donne, ultimi per l’età delle puerpere al primo parto (trentuno anni e due mesi), terzultimi per l’età media alla quale le madri mettono al mondo una bambina o un bambino in genere (quasi trentadue anni). Si contano più di 146 mila nascite all’anno in meno rispetto a undici fa, quando il Paese raggiunse l’apice di una pur timidissima ripresa. Con una popolazione comparabile nei due Paesi, i neonati di genitori entrambi italiani sono praticamente la metà dei neonati francesi. Tra l’altro l’onda lunga continua ad avanzare: l’Istat, l’istituto statistico, mostra che le nascite continuano a calare di circa il 2% e nel 2019 dovrebbero esserci ottomila neonati in meno rispetto al 2018. Ubriacarsi di cifre sulla recessione demografica è diventato così facile che essa entrata nelle coscienze persino dei politici. Non passa governo che non pensi a qualche misura perché gli italiani riprendano a riprodursi. I giallo-verdi al potere fino a due mesi fa offrivano un bucolico un appezzamento del demanio da coltivare, a partire dal terzo figlio in poi. I giallo-rossi al potere oggi, più vicini alle correnti europee, preferiscono più asili nido dove madri e padri possano lasciare i piccoli per andare al lavoro. Ogni cultura in Italia ha la sua certezza da vendere. C’è chi è convinto che le carriere femminili scoraggino la riproduzione; chi mostra invece come nei Paesi dove le donne lavorano di più, per esempio in Scandinavia, si facciano anche più figli.

I territori d’Italia

Eppure c’è qualcosa che nessuno fa, prima di spendere i soldi dei contribuenti per questa o quella misura: cercare di capire cosa succede esattamente, dando un’occhiata a come cambiano le nascite nei diversi territori d’Italia. Non ovunque l’andamento è uguale: nella provincia di Cagliari dal 2008 sono quasi dimezzate (contro un calo del 21% in media nazionale), in quella di Sassari sono salite di un quinto. Non ovunque si nota la stessa assenza di asili nido, pubblici o privati: a Caserta si trovano solo 5,7 posti ogni cento bambini fra gli zero e i trentasei mesi d’età, a Ravenna ce ne sono 46 e dunque più di quanto raccomandato dall’Unione europea. E non ovunque per una donna resta altrettanto difficile trovare lavoro come lo era dieci anni fa. In media nazionale l’occupazione femminile – sempre bassa – è salita del 3,9% in un decennio. Ma è cresciuta di un quarto nella provincia di Oristano, mentre si è quasi dimezzata in quella di Ascoli e stranamente a Milano è crollata del 16% (rispetto al 2007, nella capitale economica del Paese lavorano 120 mila donne in meno).

Il segreto della fertilità

Può essere che queste differenze incidano sulla scelta di fare figli? Se per esempio più posti disponibili nei nidi o più lavoro per le donne nei vari territori corrispondessero a una migliore dinamica delle nascite, o a una peggiore, allora sapremmo su quali tasti battere. E quali evitare. Ma è così? No. I dati su 103 provincie nell’ultimo decennio dicono che in Italia non c’è alcuna correlazione positiva fra l’offerta di asili-nido e l’evoluzione delle nascite. Non c’è correlazione neanche con l’aumento del lavoro femminile o con l’occupazione in genere. In 57 provincie l’offerta di posti nei nidi è superiore alla (scarsa) media nazionale di 24 posti ogni cento bambini; eppure fra queste province virtuose, ben trentacinque nell’ultimo decennio hanno visto un crollo delle nascite persino più drammatico della già terribile media nazionale di meno 21%. Non solo il livello è basso, ma la loro evoluzione è stata peggiore. È tutta l’Italia più ricca: Torino, Aosta, Bergamo, Pavia, Cremona, Mantova, Lecco, Vicenza, Venezia, Padova, Udine, Ancona. Neanche all’aumento del lavoro per le donne corrisponde necessariamente, come in Europa del Nord, un andamento un po’ migliore – o almeno meno peggio – della procreazione. Nelle 49 province in cui l’occupazione sale più che nella media nazionale nell’ultimo decennio, ben 23 registrano crolli delle nascite oltre la media nazionale. Questa è l’Italia ricca e non solo: Caltanissetta, Taranto e Brindisi, ma anche Livorno, Lucca, Alessandria e Treviso. C’è però un punto in comune fra tutte queste zone demograficamente più depresse, benché sulla carta più virtuose per le condizioni di sostegno alle famiglie. Dev’essere la chiave del mistero italiano, perché qui la correlazione è stretta. Quasi infallibile. Delle 35 aree del Paese con più nidi ma un crollo delle nascite peggiore della media, tutte meno una manciata presentano un elemento costante: in quei luoghi il numero delle donne in età fertile – formalmente fra i 15 e i 49 anni – è crollato più che nel resto del Paese negli ultimi anni. Invecchiano più in fretta. E così anche nelle 23 province dove il calo delle nascite è più rapido, benché il lavoro delle donne cresca più che altrove: in quasi tutte, invariabilmente, il numero di donne in età fertile sta scendendo più che nel resto d’Italia.

La finestra delle età

In altri termini una delle grandi cause di questa recessione delle nascite è semplicemente che in Italia ci sono sempre meno donne in grado di procreare: quasi un milione in meno rispetto al 2008. Anche con la stessa propensione a fare figli di dieci anni fa, ne fanno meno. Ciò non significa che non occorrano più asili nido, più possibilità per le famiglie di poter contare su un doppio reddito e su un’assistenza. Luigi Guiso, un economista esperto (anche) di bilanci familiari, ricorda che questa ricetta è parte del successo scandinavo. Mario De Curtis, ordinario di pediatria alla Sapienza, sottolinea l’importanza del sostegno pubblico ai genitori meno abbienti. Ma oggi l’Italia paga un’incuria di decenni sulle politiche familiari. La prima recessione di nascite fra il 1975 e il 1995 sta riducendo oggi il numero di donne fertili e ciò accelera una seconda crisi e, in futuro, rischia di innescarne a catena altre più gravi. Una finestra biologica si sta chiudendo. Per riaprila, nessuno può escludere a priori che occorra dare uno sguardo nuovo anche a un’immigrazione gestita con ordine.

(Ha collaborato Riccardo Antoniucci)

Fonte: Corriere della Sera.

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